lunedì 17 febbraio 2014

Prologo Virtuale del libro "Vita Morte e Resurrezione di Pulcinella"


PROLOGO VIRTUALE DELL’AUTORE
Smorfia: Prologo, 61
Dicette Pullecenella: ‘A ccà me trase e pe’ culo m’esce
al Libro Cartaceo
VITA MORTE E RESURREZIONE DI

PULCINELLA
La Maschera che ha tenuto in vita la Commedia dell’Arte
di
Antonio Fava


Questo lavoro, VITA MORTE E RESURREZIONE DI PULCINELLA, non è storico-filologico, è un lavoro di estetica, poetica e di analisi strutturale del più longevo, concreto e strutturato genere, o sistema di generi teatrali, che oggi chiamiamo o, se si preferisce, il cui nome è oggi standardizzato nella locuzione Commedia dell’Arte; il pretesto forte, estetico-poetico-strutturale, è la maschera di Pulcinella.

Nel cartaceo del mio PULCINELLA, Il paziente lettore noterà qualche insistenza su alcuni concetti. Ciò è dovuto a due ragioni: la prima derivante dall’esperienza dell’insegnamento dalla quale ho appreso che la ripetizione di concetti e principî fondamentali non è mai troppa; la seconda è conseguenza dell’elaborazione del libro avvenuta avventurosamente in tempi e luoghi differenti, compresi non-luoghi come gli aeroporti e gli aerei nei tempi d’attesa e di viaggio. Anche i treni e le stazioni hanno fatto la loro parte. E poi gli alberghi e, ovunque, camminando (quando da solo). Insomma, tempi e luoghi preziosissimi e insostituibili per scrivere un libro, poiché il 90% del mio tempo attivo, è sociale. Così che la rilettura degli appunti mi ha messo di fronte a una certa produzione di ripetizioni. Le ho risolte in gran parte, ma non ho voluto risolverle tutte.
Repetita Juve, dice il mio carissimo amico e collega Dottor Arcifanfo Spidocchioni della Nobilissima anzi Asinissima Compagnia dei Briganti della Bastina. Io preferisco la lezione classica, Repetita Iuvant, ma non ditelo al Dottor Arcifanfo, sennò m’intavola una disceptatio infinita.

Chi fa teatro, di qualsiasi genere e diffusione, non fa mai nulla – o non tutto – di ciò che storici e critici del teatro affermano i teatranti facciano.
E per essere più precisi, dirò che gli storici e i critici del teatro, per quanto si sforzino non sono mai capaci di spiegare che cosa facciano e come gli attori facciano le cose, sulla scena: in che modo gli attori e per quali reali ed esatti motivi, fanne chelle che fanne. Le loro spiegazioni sono sempre sconcertantemente astratte, astruse, inapplicabili; sono pessimi osservatori, guardano e devono pur vedere qualcosa, ma vedono altro da quello che noi effettivamente facciamo, attuiamo; e se noi – dopo aver letto una critica che ci riguardi – dovessimo rifare, sulla scena, ciò che abbiamo fatto ma così com’è stato descritto da uno di questi osservatori, non potremmo più rifarlo, non ne saremmo capaci.
Un attore, quando legge la critica che lo riguarda o che riguarda lo spettacolo del quale fa parte, può essere contento o deluso o arrabbiato a seconda di quello che il critico dice di positivo o negativo. Un artista della scena gioisce sempre quando la critica commenta positivamente la sua prestazione e si arrabbia o si deprime se se ne parla negativamente: ma l’artista non si chiede mai se quella descrizione o commento abbia a che fare realmente con quanto prestato sulla scena; non per distrazione, ma per pura umana debolezza: vuole solo sapere se è piaciuto, verificare se ha avuto successo.
L’artista resta basito quando la critica è incomprensibile, criptica, indecifrabile, scritta in un linguaggio ultraspecialistico: specialistico della critica, non dell’attore, dato che un attore, con altri attori, non parla mai con quel linguaggio ma ne usa uno schietto, semplice, diretto, chiaro e inequivocabile; dunque, quella critica non permette di capire se la sua prestazione sia stata buona oppure no, se è piaciuta oppure no, se ha avuto successo o se ha fatto fiasco.
L’artista infine non sa più che pensare quando, sapendo benissimo di avere avuto successo, poiché il pubblico glie l’ha dimostrato molto chiaramente durante tutta la rappresentazione e specialmente nel grande applauso finale, leggendo poi la critica “scopre” di aver fatto solo cose sbagliate.
L’arte teatrale è da sempre spiegata, narrata, illustrata da chi il teatro non lo pratica. Tre sono le categorie storiche degli osservatori del teatro:
chi ne redige la storia (storiografia teatrale)
chi ne sviluppa l’analisi (critica teatrale)
chi ne vorrebbe la scomparsa (avversità al teatro)
Sono esclusi i teatranti e il pubblico che frequenta il teatro.
Non di rado, le tre categorie sono fuse in un’unica persona.
La quasi totalità della documentazione scritta, critica e testimoniale, sulla Commedia dell’Arte, è detrattiva. Ed è sincera in questo senso. Noi oggi ricaviamo molte informazioni riguardanti la Commedia dalle dichiarazioni di esecrazione, di schifo, che provocava in quelle persone. Ci riusciamo meglio che con i complimenti, perché il ributto oltre ad essere molto più frequente dell’elogio è più circostanziato, a modo suo sincero e va dritto allo scopo. Ecco quanto ci dice Tommaso Garzoni alle pagine 739 e 740 della sua PIAZZA UNIVERSALE:
Come entrano questi dentro a una città, subito col tamburo si fa sapere, che i Signori Comici tali sono arrivati, andando la Signora vestita da huomo con la spada in mano a fare la rassegna, et s’invita il popolo à una commedia, ò tragedia, ò pastorale in palazzo, ò all’Hostaria del Pellegrino, ove la plebe desiosa di cose nuove, et curiosa per sua natura subito s’affretta a occupar la stanza, et si piazza per mezzo di gazette dentro alla sala preparata, e qui si trova un palco postizzo, una scena dipinta col carbone senza un giudicio al mondo; s’ode un concerto antecedente d’asini, et galavroni; si sente un prologo da Ceretano: un tono goffo come quel di Fra Stoppino; atti increscevoli come il mal anno; intermedij da mille forche; un Magnifico che non vale un bezzo, un zani che pare un’occa, un Gratiano che caca le parole, una ruffiana insulsa, e scioccarella, uno innamorato che stroppia le braccia a tutti quando favella, uno Spagnuolo, che non sa proferir, se non mi vida, e mi corazon, un pedante che scarta nelle parole toscane a ogni tratto, un Burattino che non sa far altro gesto che quello del berettino che si mette in capo, una Signora sopratutto orca nel dire, morta nel favellare, addormentata nel gestire, c’ha perpetua inimicizia con le gratie, e tien con la bellezza differenza capitale. 1 [sic, tutto].
Il linguaggio è colorito, simile a quel linguaggio teatrale tanto deprecato; e ce n’è abbastanza da ricostruire tutto un mondo, un tipo di vita, un mestiere. Molto probabilmente il buon Garzoni testimonia della cattiva rappresentazione di una (o più di una) compagnia di basso livello. L’esempio di quello zanni, “un Burattino che non sa far altro gesto che quello del berettino che si mette in capo” è puntuale. Poi costatiamo da varie immagini storiche di epoche diverse e con compagnie e artisti diversi e da molti scenari, che effettivamente si usava fare giochi vari col berretto. Ebbene possiamo prendere per buona la testimonianza del Garzoni che ci conferma un uso, quello dello Zanni che giocherella col berretto. Il “critico-storico” Tommaso Garzoni vedeva che forse sì quell’attore non era gran che, ma gli sfuggiva il motivo istrionico del gesto, in sé stesso giusto perché appartenente al personaggio, all’uso, allo stile acquisito da tutta una categoria. Grazie dunque a un osservatore non benevolo, ricaviamo un’informazione o, meglio, una conferma di ciò che ci sembrava esistere e ora procediamo più tranquilli nello studio dell’interpretazione del personaggio.
Curiosamente, la cattiveria d’altri tempi ci è di grande utilità mentre le attenzioni di oggi scansionano l’Arte in un modo che io, attore, non so proprio come utilizzare.
Con tutto il rispetto per le minuziose e approfondite ricerche degli studiosi della nostra epoca, ciò che gli attori fanno, facevano, faranno sulla scena, può essere spiegato pensando come attori.
Per pensare come un attore occorre essere un attore, oppure occorre frequentare gli attori nell’esercizio delle loro funzioni, che sono quelle di allestire spettacoli teatrali per rappresentarli davanti al pubblico; lo scopo finale si riassume nel divertimento del pubblico e nel successo degli attori. Incredibile, eh! che si possa dire così! D’altronde, se io attore del Duemila devo recitare, che so, Shakespeare (tanto per citarne uno), o Goldoni (per citarne un altro) come faccio a sapere come va recitato? Me lo faccio spiegare nei modi incomprensibili, forse inconsistenti, oggi così in voga? Che cosa capisco io di come si recitava trecent’anni fa? E devo pur saperlo, anche se devo lavorare a una versione moderna di tali autori, poiché non modernizzo nulla se non so tutto quello che c’è da sapere sull’originale. E che capiranno fra trecent’anni di come si recita adesso? Me lo spiega il regista? Ahi … ! Sì, poiché il tremendissimo problema della nostra epoca teatrale è che gli attori sono nelle mani di registi che si formano con quel tipo d’indagine, di analisi e di linguaggio e poi manipolano gli attori a loro piacimento, attori smarriti, colpevolizzati, incapaci di servirsi del proprio talento perché questo viene letteralmente censurato e bloccato da quei registi. Sono registi a-teatrali così come lo sono spesso i pur bravi e scrupolosi ricercatori.

La critica alla critica qualcuno la deve pur fare. Non è lo scopo del libro, anche se per un teatrante e difficile astenersene. Se io ci provo, non è per cautelarmi o difendermi in modo personale (sto bene, sto benissimo, lo sto di salute [toccatina …] e lo sto professionalmente parlando), ma per contribuire a proteggere (anche in questo, insomma, ci provo) la Categoria, quella parte di essa almeno che tiene in massimo conto la Tradizione.
Quando la moderna storiografia dell’Arte s’è messa in testa che la Commedia è soltanto un personaggio, Arlecchino2, il quale è (dicono che sia) un diavolo e quindi la Commedia è una diavoleria infernale, non hanno soltanto sparato una grandissima pappolata, ma hanno anche e soprattutto – dall’alto della loro accademica autorità o autorevolezza accademica – operato una mostruosa e appiccicosa disinformazione dalla quale non riusciamo più a ripulirci, a decontaminarci.
Se la Commedia fosse davvero come dovrebbe essere in conformità a quelle “analisi”, non si saprebbe cosa farsene delle vicende dei personaggi, così normali, così cittadine, così laiche, così concrete: poiché così è nel repertorio comico che impegna i commedianti per oltre il settanta per cento dei titoli, e così è, trasversalmente, anche nei repertori ‘fantastici’ e ‘meravigliosi’ delle fabule pastorali e magiche e nelle opere regie e truci e tragiche e truculente. Nella piccola – in proporzione – quantità di maghi, magie, esecuzioni capitali e apparizioni di esseri superni e inferni d’ogni specie, ci sono sempre, immancabilmente, sempre centrali, sempre irrinunciabili riferimenti, i buffi normali laici concreti, i Vecchi con le loro tardive ‘sputazzelle’ e i Servi con la loro irrisolvibile sopravvivenza e gli Innamorati con le loro pene d’amore ed i Capitani con la loro boria, a ricordarci che la verità vera concreta umana e sociale la portano loro. La impongono. La affermano. Sempre.
Che fine hanno fatto, in quel momento, nel momento in cui alcuni hanno divulgato la bufala storica della Commedia-Diavoleria, la scientificità, l’esattezza, l’irreprensibilità che li caratterizza, o meglio, che pretendono li caratterizzi? Hanno inseguito un’idea ideale solo perché gli piaceva. Il bisogno di “profondità” da attribuire a un genere che li imbarazza perché infond’infondo lo vedono frivolo e superficiale, li ha costretti ad inventarsi un mondo ctonio dal quale la maschera, quindi il personaggio unico, quindi il genere sviluppato, deriverebbero. La ricerca spasmodica di profondità della cosa, li ha indotti a scavare fuori della cosa e non nella cosa, perché intimamente convinti che in quella cosa, infond’infondo, non ci fosse, non ci sia nulla.
C’è alcunché di scientifico in questo? Sono scientifici quando spendono in carta e inchiostro e in megabyte per spiegare l’etimologia di quello sciagurato nome, unico fra le centinaia, forse migliaia, di tutti gli zanni di tutta la Commedia, a prestarsi a simili esercizi? E tutti gli altri – numerosissimi – nomi degli altri personaggi? Quanti e quali sono i nomi per i due Vecchi? Quanti e quali per gli Innamorati? E per i Capitani? Alla fine sono migliaia. Ogni nome è una storia e un significato e quindi un comportamento. Non contano nulla? Solo uno è interessante? L’unico che è riferibile (forzosamente) a un diavoletto, è quello che spiega tutto il sistema? Ma davvero?
Un nome. Un solo nome e tutta la Commedia dell’Arte è cancellata a vantaggio di un solo personaggio e ad evocazione di un mondo fantastico che nulla, ma proprio nulla ha a che vedere con la Commedia dell’Arte e, soprattutto, non ha nullissimamente a che vedere con la Sua nascita, la Sua origine, con il momento in cui Essa, apparendo, Laica e Rinascimentale, Cittadina e Concreta, dichiara tutto di Sé anche per il Suo futuro: incluso quel futuro barocco e degenerante, che vi butta di tutto dentro, come in una discarica capace e generosamente accogliente (compresi alcuni diavolastri moralisti importati dall’estero, in compagnia di tutti gli dèi dell’olimpo e di creature varie) e che non riesce a sporcarla, perché i tipi fissi, loro, resistono: laici, cittadini, concreti e rinascimentali, fino in fondo.
La lunga storia della Commedia dell’Arte, a volte sconcerta per la sua ‘gnoccaggine’3 o faciloneria o per la sua bassa pretestuosità; ma tranquilli: nessuno pensi che qui si pensa che voi pensiate che noi pensiamo che secoli di attività di migliaia di compagnie e di attori, abbiano sempre toccato il vertice della perfezione, e che non si siano mai sbagliati o giammai lasciati andare al facile. In questo senso c’è davvero di tutto in Commedia. La Commedia continua anche, se non soprattutto, nei suoi aspetti più corrivi. Così che viene garantita anche la continuità storica e storiografica della sua detrazione. Che col passar del tempo si fa elegante e scientifica.
Un punto sul quale tutta la storiografia e la critica teatrale concordano, anche se con svariatissime sfumature ed intensità, è la (pretesa, ovviamente) assenza di struttura nelle opere, negli scenari e nelle commedie distese, della Commedia dell’Arte. Certo ce ne vuole di scientifica certezza per affermare un concetto così anti-scientifico. Intanto chiariamoci: tutte le cose fatte, fabbricate, anche un disegno al pennarello e una creta modellata opere di bambini, hanno precise strutture. Se poi ha una sua struttura un’opera unica (un David di Michelangelo per citarne una), figuriamoci un’opera ripetuta, condivisa, limata, perfezionata in migliaia di esperienze e per svariati secoli.
Credo che il rifiuto di vedere una struttura in un sistema espressivo che ha creato un mestiere e che l’ha insegnato a tutti, che ha coerentemente retto per secoli e regge tuttora, sia un lascito di quell’imbarazzo che ha costretto quegli storici del brutto secolo passato, tuttora influenti, a inventarsi la genealogia diabolica delle maschere della Commedia. Pensavano, e i loro discendenti (siamo alla terza generazione) continuano a pensare, che l’Improvvisa sia una cosetta, una cosuccia, una cosina, una coserella (vi risparmio gli oltre duecento diminutivi della lingua italiana elencati dal Tommaseo).
Però, non è il disprezzo profondo e malcelato che li porta a rifiutare l’esistenza di una struttura nella Commedia. No. È qualcosa di mooolto più imbarazzante. È la loro incapacità di vedercela, la struttura. E perché non la vedono? Perché la si vede solo se la si fa. La fanno loro? La saprebbero fare? No e no.
Non tutti i teatranti sono capaci di spiegarla: ma tutti sono capaci di capirla e di metterla in pratica.
In questo mio lavoro, servendomi della grande maschera di Pulcinella, parlo di poetica della Commedia, di estetica della Commedia, di Tecnica e di Come-Si-Recita, ciò che è poi, fisicamente, Struttura della Commedia stessa. La struttura altro non è che com’è fatta e come la si applica: sta sulla superficie terrestre, non è né celeste né ctonia. Non è nemmeno nelle oscure profondità della psiche, ma è nei rapporti diretti fra persone, fra esseri umano-sociali, in due modi: rapporti fra umano-sociali sono le vicende rappresentate sulla scena e rapporto fra umano-sociali è la rappresentazione della fabula data dagli attori al pubblico.
La mia intenzione di contribuire a mettere chiarezza e ordine in questa confusione tutta derivata da chi ha erroneamente creduto di mettere ordine, è cominciata col precedente lavoro LA MASCHERA COMICA NELLA COMMEDIA DELL’ARTE4. Lì la struttura della Commedia dell’Arte viene spiegata. Per la prima volta. Se ne beneficiano molti commedianti.
In VITA MORTE E RESSURREZIONE DI PULCINELLA mi servo, dunque, del grande personaggio per parlare della Commedia. Perché così, in questo modo? Pulcinella è l’unica maschera che non ha conosciuto interruzioni storiche. Pulcinella è la garanzia storica della continuità dell’Improvvisa. Pulcinella ha portato avanti, in epoca romantica, quando tutta la Commedia era scomparsa dal Continente, il genere e la sua evoluzione: è Pulcinella la porzione di Commedia che l’ha rigenerata e ricostruita per intero. Pulcinella, Grande Sopravvissuto, ha fatto sopravvivere un intero mondo. E Pulcinella è umano. Umanissimo. Circolano idee fasulle, oggi, su Pulcinella: sarebbe (udite udite!) un maligno, un malefico. Evidentemente, l’influenza delle teorie “diaboliche” è arrivata fin qui, fino a contaminare un personaggio che è la massima espressione dell’essere umano-sociale esposto a tutti, ma proprio tutti i possibili drammi, impicci, imbrogli quotidiani e tutti come vittima: poiché Pulcinella è un ‘pollo’, un coglione, un fesso; e lo è perché è profondamente buono. L’esatto e perfetto contrario delle serpeggianti teorie sul Pulcinella malvagio (ma chi le inventa queste supreme bestialità? Ha un nome? Chi divulga queste assolute schifezze senza alcun fondamento storico- artistico? Chi sa parli!).
Il mio sforzo contributivo continuerà, dopo questa pulcinellata, fra poco, con ancora più materiale di riflessione, spiegazione, dimostrazione. Non ho ancora un titolo per la prossima pubblicazione, che è in corso d’opera, e che sviluppa, amplia, aggiorna e arricchisce la prima.
Una cosa è certa, certissima, per me e per chi pensa come me: l’attuale esplosione (che sembra però un’implosione, rinchiusa com’è nei socials della gran rete, sguinzagliata per le strade di tanto in tanto, ma decisamente assente dai teatri) di una certa sedicente Commedia effettivamente superficiale e amorfa o mistimorfa, un rapido diffondersi di questa commediola dell’artuccia, sembra – il paradosso è solo apparente – voler dare ragione alla storiografia ed alla critica ultrascientifiche, le quali per voler dimostrare chissacché non han dimostrato nulla, legittimando questo risultato: la pletora di artistucoli commediolanti, fa quel che vuole, chello che lle passa p’a capa, perché “tanto è Commedia qualunque cosa si voglia che lo sia”. Alla faccia degli inventori dell’Arte, cioè, letteralmente, alla faccia del Professionismo.
Gli attori non sono quasi mai capaci di spiegare quello che fanno. Così si pensa. Verissimo, purtroppo. Ma a fronte di quel ‘quasi’, che sta a significare che qualcuno ci riesce5, c’è la realtà tremenda degli storico-critici i quali non sono mai capaci di fare6 ciò che si sforzano di spiegare. Quindi, senza voler precludere a nessuno la libertà d’espressione e di divulgazione del proprio pensiero (lo si faccia, è tutto grasso che cola), siano meno casta, ascoltino, diano retta, riconoscano anche il nostro lavoro “teorico”. Che si sviluppa nel tempo, si formula ‘a posteriori’, nasce dalla pratica, quella benfatta come quella malfatta, da quella così come da quella cosà; da quella pratica che è, appunto, l’oggetto di qualsiasi studio sul teatro. È esperienza. È testimonianza. Roba preziosa in questi tempi di corsa rapida verso l’estinzione di tutte le arti e le culture storiche.

Antonio Puricinedda Fava

Reggio Emilia, Italia, gennaio-febbraio 2014
1 Tommaso Garzoni, La piazza universale di tutte le professioni del mondo, Venezia, 1589.

2 È uno delle centinaia di nomi conosciuti per il II°zanni dell’Improvvisa. Non è un personaggio a sé stante, ma la variante con quel certo nome del tipo presente in tutte le commedie con svariatissimi nomi. E ciò vale per tutti i pochi tipi fissi della Commedia: il Vecchio è scisso in due caratteri: Il Magnifico e il Dottore; il Servo in due: Primo e Secondo oppure Furbo e Sciocco; l’Innamorato, necessariamente in coppia o più coppie in molte commedie; il Capitano. Non c’è altro. Altri personaggi sono “di passaggio”, utili a quella certa azione in quella certa commedia, quindi non sono annoverabili nel ristretto e privilegiato gruppo dei ‘fissi’ o irrinunciabili. Tuttavia, per pochi che siano i tipi, innumerevoli sono i nomi. Perché? Per l’ovvio motivo che a fronte di un attore che porta avanti il personaggio acquisito in una famiglia d’Arte o da un Maestro di gran fama, c’è la maggioranza di attori che inventano il proprio nome e il proprio maschema per stare, sì, in tradizione ma con un segno o più segni distintivi propri. Arlecchino è dunque soltanto uno dei tantissimi nomi del servo sciocco. Consideriamo inoltre che diversi altri secondi zanni con altri nomi, hanno lo stesso identico aspetto, col costume a toppe – poi divenute eleganti losanghe –colorate, stesso berrettino, stessa facciotta scura e, in genere, camusa. Il “mito” è nato a tavolino, o piuttosto alla scrivania: negli anni Cinquanta hanno fatto la loro apparizione le prime teorizzazioni sulla maschera-diavolo. E da allora tutti ne parlano di questa creatura come se fosse vera ma nessuno la mette in scena, perché è semplicemente aliena, aliena al genere e alle singole commedie, è inutilizzabile. L’effetto, l’unico, concreto e deprecabile che è stato prodotto è semmai il ‘protagonismo’ di quella variante, letteralmente infestante: la Commedia, signore e signori, non ha UN protagonista, per il semplice motivo che tutti i personaggi sono protagonisti. Le compagnie dell’Arte hanno creato un sistema di accordo fra specialisti, fra maestri, fra uguali, con due soli obblighi per tutti: essere bravi e fare contento il pubblico.

3 Gnoccaggine, facilità, agevolezza. Gnocco 1: Pane insaporito con ciccioli tipico del reggiano. Gnocco 2: di facile esecuzione, agevole, di facile comprensione, elementare. Gnocca 1: di persona semplice, sciocca. Naif. Gnocca 2: donna bella e desiderabile.

4 Antonio Fava, LA MASCHERA COMICA NELLA COMMEDIA DELL’ARTE, Andromeda Editrice, 1999. Reperibile presso ArscomicA, insieme alla prima edizione in Inglese, THE COMIC MASK IN THE COMMEDIA DELL’ARTE, edizione ArscomicA e a quella in Spagnolo, LA MÁSCARA CÓMICA EN LA COMMEDIA DELL’ARTE.
Per queste edizioni vai a www.antoniofava.com Contatto diretto, Dina Buccino: vbuccin@tin.it
L’altra edizione in inglese di THE COMIC MASK IN THE COMMEDIA DELL’ARTE, per la NORTHWESTERN UNIVERSITY PRESS, Evanston, Illinois, 2007.
Versione Inglese in e-book Amazon: http://www.amazon.com/dp/B00EDIVN1A
Versione Francese, LE MASQUE COMIQUE DANS LA COMMEDIA DELL’ARTE, in e-book Amazon: http://www.amazon.fr/Masque-Comique-dans-Commedia-dellArte-ebook/dp/B00HXRQ35E


5 Alcuni che ci sono riusciti: Massimo Troiano, Discorsi delli triomfi, apparati e delle cose più notabili, fatte nelle sontuose nozze dell’Illustrissimo et Eccellentissimo signor duca Guglielmo, primo genito del generosissimo Alberto Quinto, conte palatino del Reno e duca della Baviera alta e bassa, nell’anno 1568, a’ 22 di febraro, di Massimo Troiano da Napoli, Musico dell’Illustrissimo et Ecc. signor duca di Baviera. In Monaco, appresso Adamo Montano, MDLXVIII. Flaminio Scala, Prologo della comedia del Finto Marito, in Venetia, appresso Andrea Baba, 1618 (1619); Il Teatro delle Favole Rappresentative, overo La Ricreatione Comica, Boscareccia, e Tragica: divisa in cinquanta giornate. In Venetia, appresso Gio:Battista Pulciani. MCDXI. Pier Maria Cecchini, nobile ferrarese, fra’ comici detto Frittellino, Frutti delle moderne comedie et avisi a chi le recita, Padova, 1628. Nicolò Barbieri, La Supplica Discorso Famigliare di Nicolò Barbieri detto Beltrame diretta a quelli che scrivendo ò parlando trattano de Comici trascurando i meriti delle azzioni virtuose. Lettura per quei galantuomini che non sono in tutto critici, ne affatto balordi. In Venezia con licenza de’ Superiori e Privilegio per Marco Ginammi Lanno MDCXXXIV. Luigi Riccoboni, Histoire du Théâtre Italien, A Paris, De l’Imprimerie de PIERRE DELORMEL, 1728. Antonio Piazza, Il Teatro ovvero fatti di una Veneziana che lo fanno conoscere, in Venezia 1777. Le mime Séverin, L’Homme Blanc, souvenir d’un Pierrot, Plon, Paris, 1929. Dario Fo, Manuale minimo dell’attore, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1987. Antonio Fava, La Maschera Comica … cit. Maschera & Maschere, catalogo della mostra Les masque Comiques d’Antonio Fava, par THEATRUM COMICUM, Ginevra, 2010. Vita Morte e Resurrezione di Pulcinella, ArscomicA, Reggio Emilia, 2014. Molti altri, con nomi anche più importanti, ma pur sempre una piccola pattuglia nella moltitudine di attori.


6 Adoro il verbo ‘fare’.